Il sol dell’avvenichi

Può un gay dichiarato diventare presidente del consiglio in Italia? Lui personalmente ci conta. Dalla Puglia, che governa dopo essere stato eletto due volte contro i pronostici, ha lanciato la sfida a Berlusconi, nonché all’attuale dirigenza del centrosinistra di cui si candida ad assumere la guida per battere il cavaliere. Nichi Vendola fa politica da una vita, ma si è creato nel tempo un’immagine che lo distingue nettamente dallo standard del politico in carriera e che negli ultimi anni, con una regia che si è andata progressivamente affinando, lo ha fatto emergere come il possibile leader di una sinistra più dinamica e per così dire “demummificata”. La sua marcia in più, almeno a prima vista, è un cocktail di apparenti antitesi, a cominciare da quelle tra gay, cattolico e comunista. Erede della sinistra più nobile, allergica al culto del capo, e ben acclimatato nel panorama contemporaneo di personalizzazione della politica; innovatore e legato alle tradizioni, complesso nell’argomentare e campione per numero di amici su Facebook, radicale nel merito e dialogante nel metodo… Stilisticamente, però, lontanissimo dai “ma anche” né carne né pesce di veltroniana memoria. Nichi è uno che ci mette la faccia (compreso l’orecchino che ha sempre portato anche nei ruoli istituzionali) e all’identità ci tiene. Proprio lì anzi trova la fonte dell’alternativa che vuole proporre agli italiani. Il rischio, intervistandolo, è quello di lasciarsi sedurre dalla sua congenita tendenza a volare alto, per cui abbiamo cominciato con una domanda precisa che serpeggia nella comunità glbt:
Non è che Vendola, proprio perché è l’unico leader politico gay dichiarato, sarà più cauto sui temi che a noi stanno a cuore, se non altro per evitare l’accusa strumentale di conflitto di interessi?
Trent’anni di battaglia personale e pubblica sui diritti degli omosessuali dovrebbero già rappresentare una risposta eloquente a questo interrogativo. So che in alcuni settori snob mi criticano per le mie presunte posizioni caute, perché ho detto e ripeto di essere a favore di una legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso anziché al matrimonio. Comunque, per gli argomenti di cui parliamo, credo che la mia autocandidatura implichi due aspetti positivi. Il primo è culturale e simbolico, perché in quanto tale rappresenta un fatto di rottura, non ponendo più la questione di dare a una persona gay un puro diritto di tribuna ma di riconoscerle la possibilità di esercitare un ruolo di governo a tutto campo. Di dire insomma che ci può essere in Italia un premier gay, se la sua proposta politica è convincente. Questo salto avrebbe di per sé l’effetto di spostare in avanti il terreno della discussione. Poi c’è naturalmente il merito specifico dei temi glbt, rispetto ai quali ritengo di possedere sensibilità e idee interessanti ma non necessariamente sovrapponibili a quelle del movimento glbt o di alcune sue parti. A chi si batte per i diritti di chi è discriminato in base all’orientamento sessuale o all’identità di genere non chiedo nessuna delega in bianco, ma neppure prometto fughe in avanti. Ho condiviso e condivido la piattaforma sulle unioni civili. Mi dà molto fastidio invece la diabolica tentazione di miniaturizzare l’obiettivo per renderlo sempre irraggiungibile.
Chiedere la completa parità di diritti, incluso il matrimonio, non mi sembra un modo di miniaturizzare l’obiettivo, anzi…
Non è questo il punto. È ovvio che non sono contrario all’uguaglianza. E non ho paura degli argomenti scomodi, come può dimostrare ad esempio il fatto che mi sono più volte espresso sulla questione della genitorialità omosessuale, ma penso che su questi temi gli italiani abbiano soprattutto bisogno di crescere insieme. Io voglio aprire un dibattito vero nel paese. Piuttosto che chiuderci in un atteggiamento speculare agli anatemi che vengono dalle gerarchie, dobbiamo rilanciare una sfida di conoscenza su esperienze relazionali e umane che sono portatrici d’amore e che richiedono riconoscimento e istituti di tutela giuridica. D’altra parte penso che si debba rilanciare anche sulla questione della famiglia e della sua crisi. Voglio discutere di cosa mette in crisi davvero la famiglia, se si tratti dell’affermazione di nuovi modelli relazionali oppure di un modello economico che scardina i valori umani. Voglio parlare anche al popolo del Family Day: le famiglie che stavano in piazza contro le unioni gay sono tra quelle che stanno pagando il massimo prezzo della crisi economica. Proseguendo nella direzione seguita fin qui, la famiglia sarà espulsa dalla scena nel giro di 30 o 40 anni. E si tratterebbe indubbiamente di una perdita, data l’importanza che il microcosmo familiare riveste nell’esperienza di ciascuno di noi. Voglio andare all’offensiva per un cambiamento vero, ma impostandola in termini di dialogo. Mi sembra essenziale in un’epoca come la nostra, in cui i fondamentalismi assediano la vita quotidiana e ognuno individua il capro espiatorio da randellare in riti di purificazione di varia natura e violenza endemica. Ragionare sulla convivialità delle differenze è una necessità assoluta per la sopravvivenza della vita civile. Quando, come oggi, si sdogana l’iconografia negativa della diversità si apre un varco alla barbarie. Se in Europa torna la caccia allo zingaro, se ovunque circola letteratura antisemita, se si riaccendono i falò in cui si intende bruciare ciò che spaventa, la civiltà è in pericolo. Da questo punto di vista, anche l’omofobia è una cartina di tornasole per misurare la qualità della democrazia e della convivenza.
Mettiamo che il centrosinistra guidato da Nichi Vendola vinca le prossime elezioni politiche: come evitare l’impasse sulla questione glbt che si creò ai tempi del governo Prodi?
La natura del centrosinistra di Prodi era la ricerca del minimo comun denominatore tra le componenti della coalizione, anziché la battaglia delle idee che stabilisce una sintesi come base dell’alleanza. Preferisco perdere in una battaglia delle idee piuttosto che su un aggettivo frutto di estenuanti compromessi. Quella vicenda parla di una sinistra dall’identità incerta, che presa dal panico cerca di vivere attraverso l’identità degli altri. Io credo invece che non si debba mai dimenticare che la sinistra è nata come domanda di libertà e uguaglianza e che in base a questi principi bisogna sviluppare un’ipotesi di cambiamento. Questo obiettivo però va declinato in chiave non minoritaria. Bisogna confrontarsi con tutti. Io parlo ogni giorno con gli industriali o gli esponenti delle gerarchie cattoliche senza per questo diventare subalterno, o magari Zelig. Il berlusconismo oggi sembra un racconto stracciato, mentre noi siamo in grado di metterne in campo uno diverso che parla alla maggioranza degli italiani, quindi non è il momento del rivendicazionismo urlato. Al popolo delle partite Iva voglio chiedere: non vi sentite ingannati? E alle famiglie voglio chiedere: perché dobbiamo chiuderci anziché aprirci? Il centrosinistra così com’è va rimesso in discussione e va superata una stagione in cui si è alluso ai problemi per creare un’illusione. Bisogna rimediare alla sconnessione tra politica e vita, mettendo in campo una nuova connessione tra lavoro, sapere e libertà.
Oltre che gay, sei anche cattolico dichiarato. Come mai a tuo parere i cattolici che dissentono dal Vaticano sui cosiddetti temi etici preferiscono stare zitti anziché avere il coraggio di prendere la parola?
Nel mondo cattolico c’è stata una specie di paralisi del dibattito. Il grande spirito del concilio a un certo punto si è interrotto. Questo è un punto di particolare sofferenza. Domina invece la rivendicazione di un monopolio sull’etica pubblica che è uno dei segni del potere della chiesa, perché una parte di chiesa ne fa un obiettivo di potere. Il mondo cattolico che non la pensa come le gerarchie in generale tace su tanti temi incandescenti, ma penso che siamo alla fine dell’epoca del silenzio. Oggi sta lievitando una domanda di rigenerazione. La vedo leggendo Famiglia cristiana, ascoltando i parroci, in tanti discorsi. Noi leggiamo troppo le vicende della chiesa cattolica secondo le categorie della lotta politica, invece bisogna darsi l’agio di leggere tra le pieghe.
Poi esiste naturalmente il problema della politica che si genuflette per convenienza a certi diktat della chiesa. Rosario Livatino diceva che i politici fanno a gara per apparire credenti piuttosto che per essere credibili. Questo è irrispettoso non solo della politica verso di sé ma uccide la chiesa, se la chiesa diventa legge e ordine e non lievito del futuro. Penso che, a paragone di quanto è accaduto nella seconda repubblica, il governo della Democrazia cristiana sia stato un esempio di laicità. La fine dell’unità dei cattolici ha reso tutti clericali, il massimo della secolarizzazione può convivere con il mercato dello spiritualismo. E con l’industria del sacro. Con la chiesa voglio discutere sullo scandalo vero, la mercificazione della vita. La riduzione della vita a pura merce è la più alta forma di scristianizzazione. Una prospettiva per il futuro può essere questa: ascoltare gli esseri umani interrogandosi, anziché avere la mani piene di pietre per lapidare la vittima di turno.
Quali sono secondo te i punti chiave per un’alternativa di sinistra?
Credo che la sinistra abbia bisogno di una grande visione, non di una televisione. Nel nome del potere ha pensato di abbandonare la propria anima, ma ha finito per perdere l’uno e l’altra. Bisogna anzitutto contrastare l’idea che tutto possa essere comprato e venduto, che avanza sempre più prepotentemente come dato antropologico di fondo. Bisogna porsi l’obiettivo di tornare a estendere i diritti sociali in questo paese. Insieme naturalmente a quelli civili, perché la sinistra, come dicevo, è un grande discorso di libertà. Dobbiamo riprendercela, dopo che Berlusconi l’ha resa una merce a sua volta. Non abbiamo da perdere che le nostre catene, come spiegava un antico slogan. E come osserva il poeta della beat generation John Giorno, un mio amico, “bisogna bruciare per splendere”.