A cosa servono gli amori infelici

Estate 1999. Un uomo di cinquantotto anni, mentre si prepara a qualche giorno di vacanza, finisce in ospedale per problemi cardiaci. Qui l’attesa di un intervento chirurgico diventa più lunga del previsto perché un’iniezione, forse per la distrazione di un’infermiera, gli ha procurato un’emorragia interna, ma lui non protesta né denuncia nessuno, non ama le seccature, e poi ha sempre pensato che “è meglio avere a che fare col Fato che con i tribunali”.
Così, in attesa del riassorbimento dell’emorragia, decide di dedicare il suo tempo alla scrittura, e dato che il computer è proibito perché interferirebbe con le macchine del monitoraggio, si fa portare un quaderno, una matita, un piccolo tavolino da letto e prende appunti a mano per un improbabile libro progettato da tempo, registra quanto lo circonda e scrive tre lunghe lettere, la prima a un collega d’ufficio, la seconda a un sacerdote che lo ha amato da ragazzo, la terza a un destinatario anonimo che forse non spedirà mai. Costruito con modalità e forme diverse, dalle lettere alla minuziosa descrizione dell’atmosfera ospedaliera, dal gusto della citazione ai toni più leggeri e ironici fino ai ricordi più intimi e alle confessioni più sofferte, il romanzo ci riporta ai temi e alle atmosfere tipiche di Severini: la provincia italiana degli anni Sessanta e il rimpianto struggente di occasioni mancate, di una vita intravista, ma mai pienamente vissuta, fino all’attesa “indecente, data l’età, di una seconda chance”.
Quello che caratterizza il personaggio è infatti, come in altre opere dello scrittore, la plumbea atmosfera della provincia italiana, le rinunce sempre in un contraddittorio miscuglio di lusinghe e di tormenti, l’autoconvincimento che il sesso sia sporco e volgare e che il contrario della volgarità siano l’arte, la musica, la conversazione intelligente, o forse che la libertà, compresa un po’ di disinvoltura nel sesso, sia una prerogativa delle generazioni successive, ma non della propria.
Una volta il sacerdote innamorato di lui gli ha detto: “Dici troppe parole d’aria, e poche di terra. È come se di un paesaggio descrivessi soltanto il vento”. E Gianmaria, l’altro uomo innamorato di lui e respinto anch’egli con terrore: “Sai capire i libri, ma non sai leggere i sentimenti delle persone neppure quando ti riguardano”. È questa corazza nei confronti della vita che lo ha portato a sbrigare le proprie esigenze fisiologiche con imbarazzo e vergogna: “Pratiche da cessi, da sottoscala, da auto notturne in periferia”; “cose rapide, cose sordide”. “Per starmene lontano se non dall’umiliazione almeno dalla passione”.
Anche se ora sa bene che ricostruire il passato è un’impresa insidiosa e che la vita ce la raccontiamo cercando di renderla interessante (“le facciamo il lifting, come per le rughe”), egli però non rinuncia a fare un bilancio dei propri fallimenti fino a scendere sempre più in profondità e a cogliere, con inedita lucidità, e anche con crudeltà, il potere del desiderio erotico, il suo mettere in moto energie sotterranee non solo in chi desidera, ma anche in chi è desiderato: “Si sa tutto sugli innamorati infelici, niente o pochissimo sui destinatari di amori impossibili da ricambiare. Sugli amati infelici. Anche questa può essere una condizione di grande avvilimento”.
Il romanzo, di grande suggestione già dal bellissimo titolo, è così la storia di un “uomo senza qualità” che trova la forza di analizzare le proprie sconfitte che sono insieme lavorative, sessuali e generazionali, ma lo scrittore, come al solito, non ama i toni gridati e riesce a dire le cose più terribili con la consueta discrezione e pacatezza.
Come ebbe a scrivere già Pier Vittorio Tondelli: “La novità della scrittura di Severini è proprio l’estrema capacità di tenuta e soffocazione delle punte estreme d’emotività. È come se l’autore, abilmente, volesse giungere al massimo solo per contrazione, creare tensione per non usarla, creare emozione per svaporarla, preferendo a tutto ciò un gioco di sentimenti malinconici e sfumature e controtoni e pianissimi: come se, per lui, la più grande deflagrazione dell’intensità intima fosse l’espressione di un silenzio assoluto appena appena spezzato da un lontano e improbabile singhiozzo”.