Arcigay da piccola

Trent’anni fa, sull’onda del dolore e della rabbia per la scoperta dei cadaveri di una coppia gay a Giarre, nasceva il primo circolo di Arci-gay a Palermo. L’avvicinamento all’Arci, principale braccio ricreativo-culturale della sinistra parlamentare dell’epoca, segnerà una svolta importante nella storia del movimento gay italiano e influenzerà la militanza gay fino ai giorni nostri. Quest’anno Arcigay Sicilia, nell’ambito delle iniziative del pride di Palermo dello scorso giugno, ha commemorato quelle morti e celebrato il trentennale della nascita del gruppo con un convegno e una partecipata fiaccolata.
I primi passi di Arci-gay però, nel racconto dei protagonisti e con il passare degli anni, hanno assunto tinte leggendarie e sono discordanti le versioni su ciò che realmente accadde. Dopo faticose ricerche siamo riusciti a incontrare Franco Lo Vecchio, testimone diretto e tra gli animatori del battesimo di Arci-gay Palermo. Lo Vecchio, che si è allontanato dal movimento gay, conserva gelosamente un diario fitto fitto di quei mesi che videro una manciata di omosessuali andare all’arrembaggio della sinistra storica. Ecco la sua inedita versione dei fatti.
Franco, eri a Palermo quando nacque Arci-gay?
Certo, ma è una lunga storia…
Incominciamo dall’orrore per il doppio omicidio di Giarre.
Poco dopo quelle morti di cui aveva parlato tutta la stampa italiana, esattamente l’8 dicembre 1980, incontrammo nella sede del partito radicale, che ospitava una riunione dei militanti gay del Fuori, don Marco Bisceglia, un sacerdote del dissenso che faceva parte di Arci. Ci propose di organizzare un movimento di omosessuali legato all’Arci. Noi radicali ci scontrammo immediatamente.
Litigaste?
Ci dividemmo. È nella nostra natura essere litigiosi: io ero della scuola di Giuseppe di Salvo, un militante del Fuori, Giuseppe era della scuola di Angelo Pezzana, il leader del Fuori, Pezzana della scuola Pannella… Puoi capire quanto fossimo polemici…
Per alcuni di noi la richiesta di Bisceglia era allettante. Ci avrebbe permesso di avvicinarci alla sinistra storica. Dietro l’Arci infatti c’erano il Pci e il Psi, e quest’ultimo era al governo. Dovevamo convincere la maggioranza a lottare con noi…
Così qualcuno fece il grande passo a sinistra.
Nove militanti, pur mantenendo la tessera dei radicali e del Fuori, il giorno dopo si incontrarono alla sede dell’Arci con Bisceglia. Lì abbiamo stilato un primo generico documento di intenti, con i nostri nomi e cognomi. Era nato il “Collettivo omosessuale dell’Arci”. Sai che mi chiedo ancora oggi perché Arci abbia deciso di aprire ai gay? Sarà stato forse sull’onda dell’emozione per i fatti di Giarre, ma non ho ancora trovato una risposta.
Come decideste di muovervi?
La militanza gay siciliana del Fuori era forte, visibile e decisa anche grazie a personaggi come Giuseppe di Salvo e Pietro Montana. Abbiamo insistito subito con Arci per fare qualcosa che finisse sotto i riflettori. Non eravamo malati di protagonismo o prime donne, come ci avrebbe accusato il Fuori di lì a poco, ma eravamo convinti che finire sui giornali con i nomi e cognomi potesse essere un modo per rompere le resistenze e le paure fuori e dentro il movimento. Così il 16 febbraio 1981 abbiamo organizzato il dibattito “Maschilismo e omosessualità” e, il giorno successivo, in una sala gremitissima, una rappresentazione di Teatro Madre.
Sarebbe a dire?
Era stato fondato dal compianto Nino Gennaro, un drammaturgo di Corleone che aveva una compagna, Maria Di Carlo, che mettendosi con un omosessuale aveva destato scandalo ed era stata buttata fuori di casa. Allora sperimentavamo di più… Gennaro faceva spettacoli a tematica omosessuale, sulla mafia e sulla realtà contadina della Sicilia. Finimmo sulla stampa e il nostro comitato era ormai pubblico, ma non era ancora abbastanza. L’Arci non era ancora pienamente coinvolta, se ne stava defilata e il collettivo gay era indipendente. Avevamo ottenuto la loro sigla sui manifesti, ma era un po’ troppo poco. Nel frattempo riuscimmo a fare eleggere in università un omosessuale, Andrea La Franca che era capolista di “Sinistra per il progresso”, un listone che raccoglieva diverse sigle della sinistra storica. Insomma stavamo provando a conquistare la sinistra, ma non eravamo ancora soddisfatti.
I tempi erano maturi per Arci-gay?
In Sicilia ci voleva qualcosa di dirompente e il coinvolgimento totale dell’Arci, per me, lo sarebbe stato. Dopo accesissime discussioni tra noi militanti su cosa fare, scegliemmo di costituire l’associazione Arci-gay. Su quel trattino, che successivamente Arcigay ha perso, ho insistito moltissimo e stava a significare che volevamo “compromettere” l’Arci. Dal notaio Antonio Marsala registrammo il primo statuto. Il primo presidente fu, nel 1981 Salvatore Trentacosti. Nel 1982 fu eletto Gino Campanella.
Come la presero in Arci?
Eravamo l’incubo di Giovanni Neglia, un vecchio militante del Pci e presidente regionale dell’associazione. A ogni richiesta di denaro per le nostre iniziative diceva: “Franco mi devi capire, io sto facendo già degli sforzi, ma all’interno dell’Arci non la pensano tutti come me…”. Riuscimmo comunque a far eleggere un omosessuale visibile, Enzo Scimonelli, nel consiglio nazionale di Arci e fu un passo concreto e importante. Allora poi, tutte le occasioni erano buone per cercare di strappare qualcosa di concreto, era un continuo salire e scendere scale e bussare alla porta di Pci, Psi e Cgil. Ai comunisti dicevo che dovevano farsi perdonare l’espulsione di Pasolini dal partito, e tutto quello che di male avevano fatto agli omosessuali. Loro, allora, sborsavano qualcosa. I soldi ci servivano per i manifesti e per pagare la Siae. Eravamo studenti universitari morti di fame, ma i manifesti e le iniziative erano più importanti di tutto. Ci misi otto anni a finire l’università…
Quali sono state le prime attività di Arci-gay?
Il nostro obiettivo era migliorare la condizione degli omosessuali. Eravamo una dozzina di militanti molto agguerriti e riuscivamo a mobilitare almeno una cinquantina di persone. Arci-gay partecipò a ben 8 marce della pace tra l’81 e l’83. Uno degli slogan era “Siamo froci, siamo tanti, contro i missili tutti quanti”. Eravamo vicini e difendevamo transessuali e travestiti. Si parlava all’infinito del tema della clandestinità. Non è un termine di oggi, ma risale alla Resistenza e noi lo usavamo migliaia di volte: “se si sceglie di vivere nella clandestinità si sceglie di vivere sotto la bandiera della paura”. Ripetevamo anche il termine “coming out” miliardi di volte e i discorsi aiutavano soprattutto coloro, che come me, provenivano dai paesi dell’entroterra siculo. Si cercava soprattutto di uscire dalla logica dell’isolamento individuale, perché almeno potenzialmente eravamo tanti.
A Palermo siete riusciti a organizzare uno dei primissimi pride.
Sì, il 28 giugno 1982 a Villa Giulia organizzammo la festa nazionale dell’orgoglio gay, il nostro 8 marzo. Aderirono decine di sigle della sinistra: Psi, Pdup, Dp, il Pci, Fgsi, Cgil regionale e il partito comunista d’Italia. Della loro sede, tu pensa, ricordo solo la foto di Stalin in bella mostra… Aderirono anche i sindacati degli agricoltori, dei metalmeccanici, i gay del Lambda di Torino e quelli del Narciso di Roma e il Fuori. C’era pure un centro di cultura anticolonialista di cui non ricordo nulla, il Centro Peppino Impastato, le femministe della Mandragola… Bussavamo proprio a tutte le porte. Tutte le sigle erano sul manifesto e non ti dico le polemiche interne che ebbero molti dei gruppi, tutti divisi sulla questione gay.
Fu comunque una grande festa?
Fino ad allora ce ne stavamo “protetti” nelle sedi dei partiti o dei sindacati oppure discutevamo alla casa dello studente. Fu un’iniziativa pubblica, la prima in assoluto per la Sicilia ed è stato un tripudio popolare. A Palermo quel giorno c’erano, ma non lo sapevamo, le prime comunioni e avevamo scelto Villa Giulia, uno tra i più bei parchi pubblici d’Italia. Arrivavano le famiglie con le bambine con l’abitino bianco ed erano accolti da un enorme “Salve signori, siamo anormali” che è una frase di Cohen. Trovarono una mostra, fotografie, rassegna stampa… Le famiglie si fermarono fino a notte fonda. Dal palco parlarono tutte le sigle. Io non ci riuscii: ero troppo emozionato. L’indomani non potevo camminare per Palermo e tutti mi salutavano perché mi avevano visto in tv. Era il saluto di chi finalmente ti riconosce e ti rispetta.
Ma era solo l’inizio…
Sì, a ottobre commemorammo per la prima volta i morti di Giarre. Poi ancora altre iniziative… Alla fine, per lavoro, dovetti trasferirmi al nord…
…dove hai assistito alla nascita di Arcigay senza trattino.
Quella è un’altra storia con Franco Grillini, Gianpaolo Silvestri e Beppe Ramina a Bologna. Noi eravamo più piccoli, avevamo uno statuto e degli organi dirigenti e, spero, abbiamo preparato loro il terreno. Se Enzo Scimonelli non fosse stato eletto in Arci la militanza gay sarebbe arrivata alla sinistra molto più tardi. Pensa, il titolo del nostro primo dibattito pubblico era: “Arci-gay e le forze progressiste”. Parlammo del rapporto tra Arci-gay e la sinistra: ho la netta impressione che sia un tema ancora attualissimo.