Darsi alla fuga

Il nonno di mia madre partì all’inizio del secolo per l’Argentina. Lei non lo conobbe mai. Come per molti italiani era stata la fame, non la curiosità, a muovere i suoi passi. Si sarebbe stabilito laggiù dove altri parenti partiti poco prima di lui gli avrebbero procurato un lavoro, una sistemazione ed entro breve avrebbe richiamato la mia bisnonna per ricomporre la famiglia. Come invece in una sceneggiatura della commedia all’italiana, il mio antenato dopo poco tempo sparì. Scoprirono, solo dopo parecchi anni che, dimenticandosi di avere una moglie in Italia, si era consolato prendendosene un’altra. E così svanì l’ipotesi che io potessi nascere nella terra del tango e di Evita Perón.
Mentre racconto questo brandello di sciagurata vita familiare sto contemporaneamente controllando alcuni voli per l’estero. Da un po’ di tempo sto considerando l’ipotesi di andarmene anche io dall’Italia. Di emigrare. Per anni ho visto partire molti miei amici. Alcuni per lavoro, altri per amore, altri ancora per un’insofferenza innata a restare per troppo tempo nello stesso posto e mi chiedo se adesso non sia arrivato anche il mio turno. Più per darmi una giustificazione a restare che per un reale convincimento che l’Italia fosse un bel posto dove vivere, mi sono fino a poco tempo fa ostinato a difendere la scelta di non partire. In effetti ho sempre trovato un po’ provinciale l’esaltazione dei nostri connazionali che vedevano nell’estero una valle dell’Eden dove le linee della metropolitana sono centinaia, dove i supermercati sono aperti fino alle 5 di mattina e le mele sono grosse come palle da bowling. È vero, lo standard di vita di alcune grandi città come Londra, Parigi, New York o Madrid è indiscutibilmente migliore, ma finché ho potuto mi sono sforzato di contrapporre alla loro esaltazione da giovani Erasmus la qualità della vita in Italia e la possibilità di crederla un giorno una nazione migliore, soprattutto dopo aver saputo che finalmente apriranno Starbucks anche da noi. Oggi però mi rimane più difficile crederlo. Mi sono amaramente arreso all’evidenza che tutto sommato anche la Corea del Nord inizi ad essere un posto migliore dove vivere. Soprattutto se si è omosessuali, soprattutto se si pretende un riconoscimento della propria identità sociale sia come individuo sia come portatore di valori sentimentali e d’amore formando coppie, identità ancor meno considerate dai nostri governi.
Edu e Ale sono due miei carissimi amici. Si sono conosciuti quattro anni fa. Dopo 5 minuti Edu va a vivere a casa di Ale. Un’alchimia fatta di fortuna e impegno. Due anni fa Edu ha la possibilità di trasferirsi a Dublino per lavoro. Ale decide di seguirlo benché faccia su e giù da Roma per motivi di lavoro. Qualche mese fa l’annuncio: “Ci sposiamo”. Sgombrata subito la mente dall’immagine di vedermeli vestiti con garze bianche e ghirlande di fiori mentre si scambiano in gaelico promesse d’amore davanti a un druido in un tempio pagano formato da dolmen e menhir, ho provato per loro tanta tenerezza e allo stesso tempo ne ho ammirato l’ostinato desiderio di perseguire il loro obiettivo matrimoniale mortificato dalla nostra politica nazionale fatta di genuflessioni ai piedi di un altare sempre più marcio sebbene ancora potentissimo.
La cerimonia non sarà una pagliacciata, ma un gesto d’amore e politico che purtroppo da noi non avrà alcun valore legale ma che conferma ancora una volta quanto i nostri governi non si curino del perseguimento della felicità dei loro cittadini ma siano sempre di più occupati a mantenere privilegi oligarchici proiettandosi sempre più fuori dalle orbite della politica vera.
Siamo però franchi, non tutti i gay che emigrano sono dei moderni Mazzini costretti a un esilio imposto dalla dissidenza politica. Molti non sanno neppure la differenza tra un DiDoRe e un dildo ma sono semmai attratti dallo scintillio ormonale del milione di omosessuali riversati nelle piazze madrilene del pride iberico. Ma del resto come dargli torto. Del resto quello che ha sempre causato le grandi migrazioni negli ultimi 70.000 anni è sempre stata la ricerca di territori nuovi e fertili dove poter mietere messi?
Certo resta sempre il dubbio se sia meglio restare e combattere o semplificarsi la vita e partire. Non è un giudizio facile da dare. Il tempo passa, la vita è una e tra manifestazioni sempre più fiacche e inutili ci si chiede che senso abbia arrampicarsi su un albero alto duecento metri quando poco più in là la macedonia è tagliata e servita su piatti d’argento. In questo caso la via è più facile ma per questo non più semplice. Non so se davvero andrò avanti nel mio intento, sono più della pizza e del mandolino e ho difficoltà a vedermi davvero sotto la pioggia impertinente di Londra, ma quando non è il tuo stato quello che ti dà la possibilità di realizzarti allora è un tuo dovere andartelo a trovare altrove. E quando il compromesso rischia di superare il limite della dignità allora è necessario che si agisca, anche andandosene.
Parafrasando il film dei fratelli Coen, l’Italia non è un paese per gay ed è doloroso e avvilente vedere quanto questa nazione non ami i propri cittadini al punto da costringerli alla fuga, al punto di fregarsene senza rimorso. Quindi, che sia motivata dalla ricerca di un lavoro che non c’è (la fuga dei cervelli è ormai un fenomeno notissimo) o dalla tutela di diritti qui negati, siamo tutti sulla stessa scialuppa: gay, etero, disoccupati, sognatori e persino coppie in cerca di un villino con la staccionata dipinta di bianco dove poter appendere all’ingresso una bella foto delle nozze.