Sposato e felice

È il regista che ha messo in scena Fassbinder (Le lacrime amare di Petra von Kant), una trilogia su Pasolini, Genet (I negri e Querelle), Testori (I trionfi), Marlowe (Edoardo II), oltre a Shakespeare, Beckett e Giordano Bruno. Antonio Latella (45 anni) prima attore con Ronconi, Castri e Patroni Griffi, è passato alla regia imponendosi come uno dei migliori talenti della penultima generazione. Ha lavorato sia con gli Stabili che con i teatri off e nel 2010 gli è stata affidata la direzione artistica del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli: un ritorno a casa, date le sue origini campane, e una sede ideale per la sperimentazione che ha visto nascere una serie di lavori di alto profilo (come Don Giovanni, a cenar teco, in cartellone all’Elfo Puccini di Milano dal 2 al 13 maggio). Le difficoltà finanziarie e burocratiche che si stanno abbattendo sul versante dello spettacolo lo hanno costretto a lasciare e con coraggio ha fondato una sua compagnia, Stabile/Mobile, con cui sta lavorando al Progetto Via col vento. Si tratta di cinque pièces ispirate all’omonimo romanzo di Margaret Mitchell, raccolte sotto il titolo Francamente me ne infischio che vedremo in forma compiuta alla Corte Ospitale di Rubiera (Re) a fine maggio. Nel frattempo continua la vita da pendolare con Berlino dove vive dal 2004 e in autunno ha messo in scena La notte prima della foresta di Koltès con Clemens Schick, un mito del teatro tedesco. In patria è tornato per Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams. Ha appena debuttato a Modena e, confermando la sua vocazione internazionale, è già pronto a partire per Novosibirsk in Siberia dove allestirà Orfeo, Euridice e Ifigenia con attori russi. Alla vigilia di questa nuova avventura gli chiediamo di parlarci degli ultimi lavori e della sua vita in Germania.
Ti abbiamo incontrato per la prima volta a Napoli in occasione della messa in scena di Querelle e sono trascorsi dieci anni: come è cambiato Antonio dal punto di vista professionale e personale?
Sono successe tante cose e tanti spettacoli. Forse, a un certo punto, mi sono perso: ti trovi a dover sempre dimostrare e quindi impari a utilizzare meccanismi che sai far funzionare, però ti fermi nella ricerca. Ora mi sembra di aver ritrovato una libertà creativa totale, mi sento più simile agli inizi con qualche anno in più. Vivendo a Berlino ho capito che è finito il tempo del teatro che fa finta che il pubblico non esista: bisogna invece recuperare un rapporto diretto con lo spettatore. Qui il pubblico vuole la discussione e anche essere messo in discussione, invece in Italia ci si sta fossilizzando, siamo 30 anni indietro rispetto alla Germania. Si ha timore del cambiamento, di scardinare equilibri consolidati basati sugli scambi e sugli abbonati, persiste la diffidenza verso testi nuovi. Circa il mio privato, rispetto a 10 anni fa, sentendomi più sicuro, non ho paura a essere fragile.
Nel tuo approccio a Williams hai voluto privilegiare i temi dell’identità e della sessualità, quest’ultima distruttiva come accade per Blanche e per il giovane marito omosessuale. Perché queste due linee guida?
Rispetto al testo, il discorso sull’identità mi sembra la cosa più contemporanea in confronto a altre che sono forse più datate e riguarda tutti i personaggi della pièce. Blanche perde l’identità a causa della sua follia ma, per assurdo, diventa così lucida da evidenziare il lato oscuro di tutti gli altri. Personaggi senza identità, dalla sorella che la smarrisce alla notizia che la casa di famiglia è stata venduta, allo stesso Kovalski che la cerca e non vuole essere chiamato polacco bensì americano, a Mitch che nasconde l’impossibilità di trovare una donna e vive solo con la madre. Sono figure assenti, quasi ne mancasse un pezzo, quindi sono in corsa, nel tentativo di ritrovarsi che è poi accettare il proprio lato oscuro, come ha fatto Blanche, mentre gli altri non sono pronti a farlo e l’allontanano. Circa la sessualità, lei vive la passione in modo assoluto: cercando di colmare il vuoto lasciato dalla morte del suo primo amore, si dà totalmente in un rapporto e così ogni volta muore un po’. Una morte lenta che patì anche la sorella dell’autore, fatta lobotomizzare dalla madre perché viveva la propria sessualità in maniera troppo libera e usava un linguaggio scurrile.
Quindi alla sessualità si accompagna spesso la repressione: come non associarla all’identità omosessuale?
Grazie a uomini come Williams, Genet e tanti altri che si sono esposti in prima persona, oggi le cose sono un po’ cambiate, soprattutto nei giovani che mi sembrano più sereni e tranquilli, almeno qui in Germania. Rispetto alla sorella, nei suoi testi Williams sembra volersi togliere quel senso di colpa che nutre nei suoi confronti per non essere riuscito a salvarla. In Blanche come in altri personaggi troviamo donne che sono state penalizzate dall’essere bulimiche d’amore e qui entra in campo l’omosessualità dell’autore: qua e là viene dichiarata sotto forma di emarginazione. Dietro a queste donne tormentate c’è sicuramente anche lui: può essere stata la spinta iniziale, però oggi i suoi personaggi sono liberi da questo imprinting, estremamente potenti in quanto estremamente tragici.
Nel Tram il tuo finale si discosta da quello tradizionale e pare più aperto e meno pessimista.
Nel prepararlo pensavo che mi sarebbe piaciuto vedere Blanche volare via libera, ma anche nel vederla semplicemente sorridere tra le braccia del medico c’è un senso di libertà: non sappiamo se lei ha ritrovato se stessa, ma la cosa bella è che alcuni spettatori trovino il finale assai liberatorio, altri lo vedano senza speranza e altri ancora malinconico. Credo di essere riuscito a consentire a ognuno di noi di trovare l’opportunità di confrontarsi con questo personaggio.
Di Kovalski hai sottolineato la fisicità e ci ha fatto pensare, nostro malgrado, allo scontato cliché (anche nel mondo gay) del maschio immigrato percepito come macchina da sesso…
È un perdersi nel diverso, pensando che in lui ci sia la nostra libertà sessuale: forse la persona diversa da noi sta cercando la stessa cosa che cerchiamo noi. Continuiamo a dire di essere uguali e liberi nell’uguaglianza e meravigliosamente tolleranti, ma c’è un problema di base: non ci può essere libertà se non c’è accettazione della diversità. Siamo tutti diversi e la globalizzazione che ci vorrebbe clonare non è certo la soluzione ideale.
Da Blanche arriviamo a Rossella O’Hara. Che cosa ci dice questo personaggio rispetto all’America di ieri e di oggi?
Mi interessava creare una sorta di affresco che mi permettesse di giocare e di parlare seriamente di quello che è stato e che è il sogno americano: Via col vento per alcune generazioni lo ha rappresentato, più attraverso il film che con il romanzo. Leggendolo, si scopre che è un testo duro e Rossella è un personaggio piuttosto antipatico. È interessante il ponte che si crea col Tram: l’attrice, Vivien Leigh, era la stessa e attraverso la sua gioventù in Via col vento ha creato un’immagine del sogno americano, della donna del Novecento che si lancia verso la crescita economica e diventa imprenditrice. Nel Tram la vediamo malata, sciupata, triste, e rappresenta la caduta di quel sogno. Due donne incapaci di costruire una famiglia nel senso borghese di ciò che s’intende per famiglia. L’unica in grado di amare è Blanche, perché Rossella ama più se stessa. Lei è per me oggi l’archetipo dell’America: ha imparato a disfare le tende per farsi un abito ma non a trovare una reale relazione con la gente. L’America è un paese contradditorio: ha istituito il matrimonio gay ma mantiene la pena di morte.
A proposito di matrimonio gay, che ne pensi?
In Germania esiste. Penso che il fatto di sposarsi possa essere un modo per dirsi, nonostante tutto quello che di negativo può succedere, compreso la fine dell’amore o il tradimento “Io ti ho scelto per invecchiare insieme e averti al mio fianco”, una motivazione più forte dell’eredità o degli altri diritti civili. È bello sapere che quando sarai vecchio e magari in un letto d’ospedale ci potrà essere una persona cara accanto a te senza alcun ostacolo burocratico. Io, per esempio, l’ho fatto. Ho un compagno con cui vivo da 19 anni: è un pittore austriaco, ci siamo conosciuti da ragazzi e abbiamo abitato in Italia. La scelta di trasferirci a Berlino è per entrambi legata a motivi professionali: per l’arte è oggi una delle città più importanti in Europa e per il teatro è lo stesso. Abbiamo scelto un posto dove poter crescere e sentirci stimolati, sia come artisti che come coppia.
Quali le differenze più significative rispetto al nostro paese?
Non avverti la diversità tra eterosessuali e gay e non c’è bisogno di andare nei bar con le dark room e le bandierine per sentirsi parte di una comunità e essere riconosciuti. Nei bar gay ci vanno tutti: c’è una reale normalità.