Sanremo in paradiso

Dovessero farne un altro così (di Festival) mi premunisco: stavolta ho rischiato grosso sul fronte della glicemia e se sono ancora sana (dubito fortemente…) non voglio restarci secca per eccessiva ingestione di zuccheri. Ma come? In un baleno il Festival della Canzone, da sempre teatro delle peggiori (e quindi maggiormente godibili) nefandezze, con i Povia che fanno Luca era gay e i soliti idioti che solo un anno fa m’han dovuto far dire “amo gli etero, adoro gli etero…”, di colpo diventa “il Giardino dell’Eden”, dove tutto è perfetto, dove il “dissenso” non avrebbe senso, dove ciascuno ha il proprio spazio, il “luogo magico” dove sposare canzonette con l’opera, dove miscelare nobili appelli alla non-violenza sulle donne a donne che appaiono su quel palco solo per la loro bellezza (quella Bar qualcosa e quell’altra col sorriso ingiallito da tabagista), il crocevia del dove tutto è possibile, dove hanno visibilità, e in quota schiacciante, i “gay”, perché omosessuale è troppo lungo e frocio non va bene, è scorretto suvvia…
E pensare che, poche ore prima dell’avvio del Festival, la malefica che mi abita confidava al Direttore di cui temevo strali, come deve ben fare una timida gayeuse (metti insieme gay e voyeuse…): “ma non c’è nessuno in questo Festival… che faccio, gli orli alla Ayane? Metto una pezza alla Molinari?”. Salvo poi partire di tastiera appena capito che ci stavamo inoltrando in un Paradiso che non ammette demoni, dove regnano il buongusto e quella giustizia che, incredibile, è ora anche terrena. E così è stato. A cominciare dalle “coppie di fatto” con Stefano e Federico, i due ragazzi innamorati che dopo un po’ di anni decidono di sposarsi ma non lo possono fare in Italia e che “parlano” a cartelli (utile, giusto, per i non udenti, beh, ma che bravi, nessuno si senta – anche chi non sente – fuori posto o dentro il programma sbagliato). Magari elaborare il costrutto in modo meno elementare del “perché lo amo” sarebbe stato gradito ma non chiediamo il braccio, in fondo stavano solo chiedendo la mano uno dell’altro… Per poi scivolare, dopo una performance da vero orgasmo multiplo, nell’incubo dell’infanzia di Anthony Hegarty, che menava la sorella prima di lanciarsi in un interminabile “elogio del gineceo”: “Le donne hanno la chiave per la sopravvivenza della specie. Nel mio sogno l’uomo troverà una nuova umiltà, farà un passo indietro, dentro se stesso. Le donne invece forgeranno una nuova strada per la nostra specie…”; Wow! Come contraddirlo? E perchè?
Non c’è guerra, c’è finalmente pace, nessuno “osa” polemiche. Anzi, Fazio dice “è un brano molto attuale” dando il palco a Renzo Rubino (un orsetto da manuale che puoi incrociare in un qualsiasi sabato sera al OneWay di S.S. Giovanni), il quale, giusto per dare ulteriore spessore alla canzone, Il Postino (amami uomo), si fa aiutare da un aitante daddybear, un tenore barbuto perché il pelo nell’estetica gay c’ha sempre un suo perché, snocciolando frasi via via sempre più ardite come “Amami uomo …con le mani da uomo…” (beh, ci sono alternative?) o inanellare “prendimi… apparecchiami… sorprendimi…” (siamo già al possesso senza ribellione e, con l’apparecchiata, a un passo dal cannibalismo. Per le sorprese c’è sempre il dopocena…).
Inutile sbrodolarsi se sul palco arriva poi quell’etero da cucina a nome Cracco, uno che ti faresti volentieri, anche sfidando l’Antidroga, sempre che di Crack ce ne sia ancora in giro e non se lo siano già “fatti” gli strafatti (ed erano tanti) di questo Festival da Arcadia celeste, dove hanno suonato come emesse dal flauto di Pan le illuminanti parole del testo L’essenziale dove Marco Mengoni, (di cui certo non si vede la necessity di un outing) declama, in un crescendo di note degno della migliore delle “urlatrici di antica e festivaliera memoria” un assioma inconfutabile quale “L’amore non segue le logiche ti toglie il respiro e la sete”, mettendo di fatto a tacere i bulimici e i disidratati della polemica, la vera assente di questo Festival, fornendoci così solo “l’essenziale”, quello che ci basta per farci sentire finalmente visibili, integrati, degni al pari di qualunque altra tra le possibili inclinazioni sessuali, nessuna esclusa.
Come è a tutti tristemente noto, solo alla morte non ci si può sottrarre, per di più in un Festival dove la “falce” ha colpito ben più del Martello: muore il figlio di Franco dei Ricchi e Poveri e loro, ovviamente, non vanno a ritirare il Premio Città di Sanremo, ma ben si guardano i “buoni ma proprio buoni autori” di mandare almeno un filmato che li riguardi. Con Cristicchi riesumato da “la prima volta che sono morto” e i Modà che auspicano, come Zsa Zsa Gabor “Se si potesse non morire”, altro non c’è rimasto da fare che accompagnare al camposanto la irriesumabile pratica del “Gay gossip touch”, quell’esercizio che da “fuori” ti permette di “criticare il sistema” proprio perché non ne fai parte. Addio al vetriolo usato come cipria, addio ai lustrini della cattiveria dietro Ia quale spesso si cela l’insostenibile “leggerezza” della battuta tagliente, quella che non può e non deve risparmiare nessuno, anche chi, diligentemente, fa un ottimo lavoro da protocollo farcito di tanta correttezza da risultare fin sobrio, quell’orrido aggettivo che abbiamo utilizzato in quest’ultimo anno in politica per un signore che di politica sembrava non volesse più interessarsi e invece…
Alle esequie del “taglia & cuci” non s’è presentato neppure il Divismo, quello così amato dal gaywatcher agé ma già deceduto da quando Sanremo lascia al portone le Oxa, le Marcelle e tutte quelle che, secondo alcuni, dovrebbero andare a cantare la domenica mattina nelle case di riposo di cui sarebbe meglio occupassero anche le camera lasciate libere. Svuotate le icone dal loro non essere tali, ci si è dovuti ridurre a chiosare sui vestiti, quei tre-quattro vestiti indossati, a turno, da un assistente di Babbo Natale fuori-slitta come la Molinari o da una simpatica locandiera veneta a nome Chiara cui la stilista Anna Molinari dovrebbe far causa per averla anche solo nominata sul palco. Nell’apporre la ghirlanda al trapassato Festival dell’inezia e vacuità, ci dà una mano Malika Ayane: tinta biondo cenere con ricrescita biondo paglierino, schiena tatuata che nemmeno un camionista tailandese, voce sempre più simile alla Vanoni senza adenoidi e gestualità da bipolare in eterno conflitto con se stessa: un “numero” che darà il suo bel daffare alle drag della Penisola, quelle “modern”, ovvio, le altre possono pur sempre riparare sulla Nazionale, Maria, una che di suo ha già l’aspetto di una trans messicana. Brava, per carità, tanto brava, guardi, signora mia, proprio un belvedere…