L’universo degli adolescenti trans

Metti i termini “trans” e “bambini” nello stesso titolo di giornale, e si scatena il finimondo. Anche tra i commenti agli articoli delle testate più seguite: “poveri bambini”, “violenza su minori”, “manifestazioni estreme e crudeli”, e via sproloquiando. Per non parlare delle bufale giornalistiche diffuse ad arte per scatenare il panico omo-transfobico tra i benpensanti, come è successo nel marzo scorso quando dai siti clerico-fascisti si è propagata la notizia che “a Madrid il bimbo è trans. Per legge”, riferendosi con toni apocalittici a una norma approvata in Spagna sul trattamento degli adolescenti transgender.

Eppure, così come si abbassa sempre più l’età nella quale gli omosessuali prendono coscienza di sé e fanno coming out, allo stesso modo la maggiore sensibilità sul tema della disforia di genere permette ai genitori dei bambini che vivono un’incongruenza tra corpo e percezione del proprio genere di apparteneneza di affrontare il problema con molti più strumenti culturali rispetto a qualche anno fa.

“La situazione di disforia è dolorosa e faticosa, soprattutto in una fase come l’adolescenza particolarmente difficile da attraversare per chiunque”, commenta la dottoressa Paola Biondi, psicologa e psicoterapeuta specializzata nelle tematiche di orientamento sessuale e identità di genere e direttrice di Psicologiagay.com. “A maggior ragione quando il corpo sta cambiando, ed è un corpo che non si riconosce come proprio. Se prima si può mascherare in qualche modo l’appartenenza a un sesso piuttosto che a un altro, nel momento in cui arriva la pubertà il corpo si trasforma nel senso nel quale è geneticamente determinato”.

Il lavoro di sostegno psicologico o di psicoterapia offerto agli adolescenti transgender e alle loro famiglie alla dottoressa Biondi, anche consulente per le associazioni Arcilesbica Nazionale, Famiglie Arcobaleno, Rete Genitori Rainbow è fondamentale per accompagnare i giovani nel percorso di accettazione della loro condizione, ma l’appoggio psicologico da solo non è sufficiente.

In alcuni paesi europei come Olanda, Germania, Regno Unito e negli Stati Uniti si sperimenta da anni una terapia farmacologica che di fatto blocca la pubertà, migliorando molto il benessere psicofisico dei giovanissimi transgender fino a quando non decidano con cognizione di causa di cosa fare del proprio corpo.

In Italia queste terapie per ora non sono consentite, mentre la legge del 1982 permette l’assunzione degli ormoni del sesso opposto solo dopo i 16 anni e la “rettificazione di attribuzione di sesso”, con eventuale intervento chirurgico, a partire dalla maggiore età.

“In quei paesi il fenomeno viene studiato da molto più tempo che in Italia”, precisa Biondi. “Il blocco della pubertà è un palliativo rispetto a situazioni che poi si possono rivelare definitive. Se un preadolescente presenta elementi che provano una incongruenza di genere e questi elementi si mantengono stabili anche durante tutta l’adolescenza, l’uso di farmaci inibitori non fa altro che rimandare il momento in cui verrà intrapresa la transizione vera e propria. I casi vanno però valutati di volta in volta, perché nel momento in cui si interviene con una terapia ormonale che va a mascolinizzare o femminilizzare il corpo, alcuni risultati sono pressoché irreversibili, come ad esempio il timbro vocale”.

Anche se la sospensione della pubertà non è ancora possibile nel nostro paese, non mancano comunque i centri clinici dove i teenager transgender possono trovare il sostegno del quale hanno bisogno: “Sono strutture pubbliche, come il Servizio di Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica del San Camillo di Roma. Possono farsene carico solo quelle che conoscono molto bene la problematica e in cui vengono presi in carico anche bambini piccoli, iniziando a lavorare coi loro genitori. Ci sono anche strutture private: in questo momento, per esempio, io stessa sto seguendo i genitori di una bambina di 4-5 anni che manifesta da sempre una certa incongruenza di genere; i genitori sono molto preoccupati, più che altro perché non vogliono che la bambina soffra”.

Biondi sottolinea come l’allineamento dei centri italiani sia pressoché totale con quelli dei paesi più avanzati, anche nella considerazione clinica della disforia di genere: “La comunità scientifica in questo si è evoluta, passando dalla concezione di ‘disturbo dell’identità di genere’ a ‘disforia’, puntando più sul concetto di incongruenza e ampliandone il significato rispetto alla disforia vera e propria, per esempio considerando i minori ‘gender variant’, le cui manifestazioni del genere sessuale non si collocano all’interno degli stereotipi di genere socialmente condivisi. L’intento è di depatologizzare la condizione. Purtroppo, nel momento in cui la disforia di genere non fosse più considerata patologica, i trattamenti psicologici e medici non sarebbero più passati dal sistema sanitario nazionale, venendo meno la possibilità di accedere alle cure gratuite come succede ora”.

Ma cosa ne pensano gli interessati? Gianni ha 15 anni ed è un transgender FtM: ha accettato di rispondere a qualche domanda insieme ai suoi genitori, coi quali vive in una città della Sardegna, a patto che usassimo nomi di fantasia.

“La prima volta in cui mi sono sentito a disagio col mio corpo avevo 9 anni. Inizialmente ero molto spaventato, non sapevo come parlarne e con chi; mi sono confidato solo con una mia compagna di classe. Negli anni successivi ho deciso di non confrontarmi più con nessuno, sperando che tutto si risolvesse col tempo. Fingere di essere ciò che non ero, però, mi ha portato molta sofferenza”.
Quando finalmente Gianni ne ha parlato coi genitori, in un primo momento ha incontrato resistenza: “Cercavano di convincermi che fosse solo una fase e di non dirlo a nessuno. Solo dopo essersi confrontati con la psichiatra, i miei genitori hanno finalmente capito come stavano davvero le cose e hanno iniziato a chiamarmi al maschile, rispettando la mia identità di genere. Tuttavia, ho iniziato a vestirmi e presentarmi per quello che sono veramente già qualche mese prima. Qui, la mia migliore amica ha avuto un ruolo fondamentale: è stata lei a mostrarmi supporto e sostegno più di tutti gli altri, e mi ha anche regalato il primo chest binder (fascia per comprimere il seno). Inizialmente, i miei genitori non volevano che lo usassi, ma quando mi sono rifiutato di iniziare l’anno scolastico e di uscire di casa senza, dopo averne parlato con la mia psichiatra hanno deciso di permettermelo. La diagnosi di disforia di genere risale a qualche mese dopo”.
Senza la pretesa di parlare a nome di tutti gli adolescenti transgender, Gianni lamenta che il problema maggiore della sua condizione è il disagio verso il proprio corpo, “strettamente collegato all’attesa di poter iniziare le cure ormonali, a 16 anni. Penso spesso a quanto sia ingiusto che in Italia le terapie per sospendere la pubertà non siano concesse. In seguito, ho intenzione comunque di proseguire la transizione e di sottopormi all’intervento per la riassegnazione del sesso”.

Gli insegnanti del liceo che frequenta, d’altro canto, non sembrano molto preparati ad affrontare la sua situazione: “Mia madre ha chiesto di chiamarmi per cognome, ma nonostante le promesse, tutti continuavano a usare il nome anagrafico, ad eccezione della professoressa di inglese. Allora la mia psichiatra è andata a parlarci, e adesso una parte di loro mi chiama con quello che io riconosco come il mio nome, un’altra per cognome. Ancora adesso una professoressa continua a chiamarmi col nome anagrafico con una frequenza che suona quasi come un dispetto. Mi hanno poi categoricamente vietato di entrare nel bagno dei maschi, ma per rispetto verso me stesso e le ragazze della scuola, mi sembra assurda anche solo l’idea di utilizzare il bagno delle femmine”.

E i compagni, come l’hanno presa? “Inizialmente si sono mostrati molto chiusi, ma dopo che ho spiegato loro la situazione non ho avuto più problemi, sono stati molto più rispettosi e preparati degli adulti”.

La mamma di Gianni ricorda di aver avuto contezza del disagio del figlio solo verso i suoi 12 anni, quando “ha sentito forte l’esigenza di parlarci dell’argomento. Non era un problema per noi accettare un figlio transgender, ma piuttosto capire se in qualche modo ci potessero essere altre ragioni della sua confusione, come gli atti di bullismo subiti a scuola, uniti al fatto che in casa non c’era affatto un’atmosfera serena. Una volta capito questo, abbiamo salutato nostra figlia e accolto in pieno nostro figlio”.

Il rifiuto iniziale subito da insegnanti e compagni alle scuole medie, anche dopo il suo coming out, ha pesato molto sul carattere del ragazzo, che ha deciso di condurre la sua vita senza voler conoscere nuovi amici. “Abbiamo chiesto il supporto di più medici per capire la situazione, per poi cercare di comprendere come agire. Ora sappiamo che dai 16 anni potrà iniziare le terapie che gli permetteranno di sentirsi più a suo agio con il proprio corpo e con la società. Abbiamo tante paure a riguardo, ma che alternative ci sono? Alle operazioni ancora non penso, ho deciso di preoccuparmi di un problema alla volta”.

Se mamma Giovanna è un po’ pessimista riguardo il grado di accettazione dei e delle transgender da parte della società, è un po’ più possibilista sull’aiuto che Gianni potrà ricevere da amici e parenti: “La loro reazione mi ha aiutato moltissimo: dapprima sono rimasti interdetti, poi quando ho parlato ad ognuno di loro gli animi si sono rasserenati. Ovviamente i membri più anziani della famiglia hanno impiegato più tempo a capire, ma adesso posso dire che tutti lo accettano, mossi dal bene che vogliono al loro nipote”.

L’attuale normativa italiana sulla disforia di genere, per mamma Giovanna, è “carente, inefficace e condizionata dai pregiudizi di chi l’ha pensata. Fatta salva la prudenza del caso visto che si tratta di minori, si dovrebbe fare più attenzione alle esigenze di chi vive una situazione di disagio, e che ogni caso vada trattato e giudicato singolarmente. Senza ombra di dubbio l’Italia dovrebbe adeguarsi alle legislazioni di quei paesi che dimostrano di essere più civili. Anche applicando la sospensione della pubertà, sebbene questa non sia esente da rischi”.
Secondo Giovanna le istituzioni pubbliche non sembrano essere vicine a chi si confronta col problema della disforia di genere: “Nella regione dove abitiamo non vi è nemmeno un centro specializzato che possa aiutare e sostenere moralmente i ragazzi e le ragazze trans e le loro famiglie. L’aiuto è arrivato da medici di buona volontà che hanno cercato di spiegarci ciò che accadeva nella vita di Gianni”.
Neppure il panorama dei media sembra raccontare il problema obiettivamente: “A parte qualche giornalista illuminato che tratta la questione senza superficialità, mi pare che si faccia un gran parlare senza arrivare a nulla. Sono convinta che la testimonianza diretta delle persone interessate, insieme all’opinione degli esperti – ma non di matrice omofoba – sia il modo migliore di dare una corretta informazione. Anche la scuola dovrebbe avere un ruolo determinante nel formare le nuove generazioni ed educarle al rispetto, alla tolleranza e a far capire ai giovani che la diversità arricchisce lo spirito. Ciò purtroppo non avviene, ed ecco che il bullismo è diventato una piaga sociale”.
“La lotta che associa omosessuali e transgender è l’assenza di riconoscimento giuridico e di pari diritto rispetto agli etero”, commenta per concludere la dottoressa Biondi, alla domanda sui motivi della feroce ostilità subita ancora oggi dalle persone trans nel nostro paese. “Però i vissuti, le esperienze, anche le discriminazioni subite sono assolutamente differenti. L’omosessualità è sdoganata, è considerata accettabile nella maggior parte dei casi anche perché molte coppie omosessuali si sono nel tempo omologate, replicando il modello eterosessuale di famiglia con figli. Chi si allontana da quel modello patriarcale, allora, patisce il rifiuto violento della società”.

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